Cito il titolo di un saggio di Marguerite Yourcenar perché non saprei trovarne uno più vicino al sentimento che mi induce a scrivere queste righe. Voglio parlare – quale originalità! – delle mie chitarre.
Non sono mai stato un concertista di carriera e, anche se sul palcoscenico ho sempre onorato la mia arte evitandole (ed evitandomi) brutte figure. Sono stato un concertista “di scopo”: dovevo presentare un repertorio nuovo, sconosciuto, del quale, come committente o “ispiratore”, mi sentivo responsabile. La mia carriera è stata quindi breve: dal 1958 al 1981, poi ho assunto responsabilità diverse, dedicandomi alla composizione, allo studio e alla ricerca, e agli allievi.
Fino a che ho suonato in pubblico, il mio atteggiamento nei confronti delle chitarre è stato utilitaristico, predace, con un avvicendamento continuo – direi maniacale – di strumenti costruiti da liutai spagnoli e italiani su ordinazione precisa, con richieste specifiche. Mi accontentavano, pagavo, e tanti saluti. Ma bastavano poche settimane a farmi sentire saturo del nuovo strumento e bisognoso di un altro. Ci fu un periodo in cui in casa mia non c’era letteralmente spazio per muoversi, tanto ingombrante era l’accumulo di chitarre con relativi astucci nelle stanze e nei corridoi. Persino in bagno, talvolta, tenni una o due chitarre. Quando smisi di dare concerti, la loro dispersione – economicamente disastrosa – mi regalò un sollievo enorme.
Oggi non saprei dire da quanto tempo non tocco le corde di una chitarra. Può accadere solo assai di rado, se un concertista o un ex allievo che mi rende visita mi fa “provare” il suo strumento. Provare cosa, poi? L’incipit di alcune pagine del mio repertorio, con le dita ormai disobbedienti…
Eppure, in uno scaffale di casa, ci sono otto chitarre la cui presenza accompagna “le temps qui passe” con una carezza consolatoria. Non le suono, ma le conosco molto meglio di quanto non conoscessi le Ramirez, le Bernabé, le Reyes, le Maldonado, le Kohno, etc. etc. che suonavo allora senza attendermi da loro altro che un buon servizio. Queste chitarre, invece, le guardo e le sento come pagine di una storia alla quale mi sono aggiunto da quando l’incipiente vecchiaia, privandomi di vigore fisico e di resistenza ai virus, mi ha donato qualcosa che non conoscevo: una percezione dell’anima dei vecchi strumenti che, nei loro legni, trattengono le memorie arcane dei maestri che le hanno suonate. La Mozzani che fu di Segovia e di Carlo Palladino, la Gallinotti di Benvenuto Terzi e quella superba (1954) di Mario Gangi, quella di un gentile anonimo che, nel 1939, aveva comperato una Gallinotti-Gomez Ramirez probabilmente senza nemmeno accorgersi che il diapason era di 64 invece che di 65 cm., e altre…Di tutte ho raccolto la storia, di tutte respiro l’essenza pneumatica, come se respirassero.
Non sono un collezionista – non ne ho la forma mentale né i mezzi – e non sono un chitarrista (la chitarra ce l’ho tutta in mente, posso leggere, immaginare i suoni, diteggiare, comporre senza alcun bisogno di imbracciare uno strumento) e tuttavia sono convinto che le anime di queste chitarre italiane non possano trovare accoglienza migliore di quella che trovano in questa casa. I liutai con i quali dialogo non sono più dei fornitori, sono amici che condividono le mie sensazioni: Lorenzo Frignani, Mario Grimaldi, Franco Iemmi…E poi Marco Tullio Giordana, il grande regista che ama e comprende le chitarre più a fondo di tanti concertisti ruggenti.
Non rispondo mai a domande relative al valore di questi strumenti. Quale che ne sia l’unità di misura in questo mondo, non è applicabile all’ordine di cose in cui vivono. Queste chitarre, il tempo le ha scolpite insieme a me.
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