Nel 1964, cinquantacinque anni fa, durante un giro di concerti in Polonia, feci sosta a Krakow e volli andare a vedere quel luogo. Ero poco più che un ragazzo, allora, ma avevo già letto migliaia di libri. Tra essi, una ponderosa “Storia del Terzo Reich” di William Shirer, pubblicata in versione italiana da Einaudi un paio d’anni prima, e, sullo stesso argomento, parecchi altri saggi storici: sapevo, insomma, quel che c’era da sapere; di certo – sia detto senza quell’ipocrisia che spesso condisce la falsa modestia – sapevo molto di più della quasi totalità maggioranza dei miei concittadini. Sentivo però che tutto ciò non bastava, e che quello che mancava alla mia conoscenza non era la lettura di altri libri (che peraltro non trascurai di leggere, in seguito), ma qualcosa che dovevo comprendere passando per altre vie.
Così andai – insieme ad altri italiani che erano con me in quel viaggio artistico – nel luogo chiamato, in polacco, Oswiecim. Non esistono dati scientifici che possano avvalorare una sorta di memoria dei luoghi che, anche a lunga distanza di tempo, trattiene un sentimento indelebile di ciò che vi è accaduto: non mi riferisco qui agli oggetti custoditi dall’uomo e presentati come monito ai visitatori, ma a qualcosa di molto più potente e invasivo, una sorta di pneuma che si respira con i polmoni assai meno che con qualche nostro apparato sensibile di cui non sappiamo nulla. In quelle tre ore nel campo di Oswiecim le mie nozioni di storia della seconda guerra mondiale, dell’ascesa e della caduta del Terzo Reich, furono sommerse da un ordine di conoscenza che non avevo mai sperimentato, che progrediva in me a ogni passo che muovevo tra le mura di quel quartiere sorto come avamposto della città di Dite su questa terra.
Da allora, so.
Ho veramente compreso chi siamo, che cosa possiamo fare, qualora gli eventi ci pongano nella condizione di poter manifestare nelle nostre azioni quotidiane (“Ma io eseguivo degli ordini”, avrebbero detto i burocrati di Oswiecim a Norimberga) la scellerata Hybris che è in noi. Di come mi comportai in quelle tre ore, non ricordo quasi nulla, salvo il mio ripetere, come una glossolalia, l’unica frase che per me poteva avere un senso e un valore: “…ma liberaci dal male”.
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